I grandi Milwaukee Bucks del passato

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Cover di Sebastiano Barban

All’interno di un’edizione dei playoff singolare per imprevedibilità – segnata da infortuni ai principali protagonisti, come forse mai si era visto – tra i tanti corsi e ricorsi storici, uno sembra essere sfuggito ai più che raccontano la stagione.

È passato mezzo secolo dal primo titolo dei Milwaukee Bucks, guidati da una coppia leggendaria e giovanissimi (ai tempi) per anno di fondazione. Era il 1971, con Oscar Robertson ad affiancarsi a Kareem Abdul-Jabbar, creando un precedente mai più raggiunto dalla franchigia. Esordiente nella stagione 1968/69.

Dopo quella volta – se si eccettua un rapido ritorno alle Finals con lo stesso gruppo o quasi – le velleità di Milwaukee si sono sempre interrotte alle finali di Conference, e raramente da favoriti.

Almeno fino al campionato in corso, cinquant’anni dopo quell’unico exploit, con i ragazzi guidati dal discusso coach Mike Budenholzer divenuti i più pronosticabili del lotto, a seguito delle defezioni inanellate dalle altre contender di cui sopra. E non lesinando di pagar comunque pegno, proprio nella sfida con gli Hawks, con l’infortunio sofferto da Giannis Antetokounmpo nella gara 4 che ha sorprendentemente riequilibrato una serie che appariva quasi a senso unico sulla carta.

Nonostante le difficoltà potenziali nel giocar senza il fulcro offensivo del proprio gioco, i Bucks hanno comunque portato a casa la serie nella notte, sconfiggendo Atlanta per 118 a 107, e soprattutto sfruttando un sensazionale Khris Middleton. Il giocatore che più degli altri ha evoluto il suo status all’occorrenza, realizzando in questo caso 23 dei suoi 32 punti nella terza frazione di gioco, quella dello strappo, conclusa con un parziale di 44 a 29 per Milwaukee. Addirittura mettendone la bellezza di 16 consecutivamente, spianando la strada per il ritorno alle Finals di una franchigia che vi mancava dal 1974.

In attesa di conoscere l’esito dell’ultimo scontro stagionale con i Suns, proviamo a partire dall’inizio e ripercorrere i momenti più importanti nella storia della franchigia. Preparandoci così al meglio, nel caso in cui il titolo tornasse a giocarsi in Winsconsin, in questo caso nell’attuale casa del Fiserv Forum.

La partenza lanciata sul tetto della lega

Pronti via, e nella prima stagione di sempre i Bucks conquistano 27 partite su 82, con coach Larry Costello al timone. Appena ritiratosi da giocatore dopo dodici buone stagioni – le ultime delle due a Philadelphia – per una carriera da 12 punti, 3.8 rimbalzi e 4.6 assist di media nella sua totalità.

Si va quindi al lancio della monetina in Lottery, e quella che potremmo chiamare “la fortuna dei principianti” non solo premia la franchigia del Wisconsin, ma le pone sul piatto d’argento una prima scelta che cambierà il futuro della lega. È già dichiarato da quattro anni dominati a UCLA, e si tratta di Lew Alcindor, divenuto per tutti Kareem Abdul-Jabbar nel 1971, dopo la conversione del 1964.

Con la sua semplice aggiunta (28.8 punti e 14.5 rimbalzi di media, da rookie) la squadra esce al secondo turno dei playoff con i Knicks di Reed e Frazier, destinati al titolo. Poi, direttamente dopo un decennio passato a Cincinnati, arriva Oscar Robertson; al tempo un trentaduenne voglioso di coronare la sua carriera con il successo massimo, leader silenzioso di un gruppo dove inizia a crescere un Bob Dandridge al secondo anno.

Insomma, molto presto e molto concretamente, i Milwaukee Bucks finiscono la stagione regolare con 66 vittorie e 16 sconfitte, passeggiando sui San Francisco Warriors ed i Los Angeles Lakers nelle finali di Conference. Nell’atto decisivo ci sono i Baltimore Bullets, che in attesa di trasferirsi nella Capitale, hanno già il totem Wes Unseld sotto i tabelloni, Gus Johnson e soprattutto Earl “The Pearl” Monroe, altrimenti conosciuto come “Black Jesus”.

Jabbar e Dandridge non si scompongono più di tanto: il primo chiude la serie con 27 punti e 18 rimbalzi di media, il secondo gioca una gara 3 da 29 punti e 10 rimbalzi. Sfida che risulta decisiva, con Milwaukee che si porta sul 3-0 del non ritorno. Nella gara dello sweep, ci pensa Big O, con 30 punti e 9 assist, che comunque aveva annullato completamente Monroe per tutta la serie. Il divario tra le due squadre è netto, ed appare altrettanto difficile superare la coppia formata da Kareem e Robertson, anche negli anni a seguire.

Seppur quest’ultimo, una volta ottenuto il desideratissimo anello, dapprima valuta il ritiro e poi decide di prolungare per altri tre anni, gli ultimi della sua carriera. Per Jabbar invece siamo appena all’inizio di un’epoca da dominatore assoluto, ed i Bucks si trascinano grazie ai due per altre stagioni ai vertici della lega.
Nell’edizione dei playoff del 1972, si schiantano in finale di Conference contro i Lakers di Jerry West e Wilt Chamberlain. Il centro ex UCLA chiude la sua stagione numericamente migliore in carriera – con 34.8 punti e 16.6 rimbalzi di media – ma è The Stilt a festeggiare dopo sei partite, prima di vincere il suo secondo titolo in carriera. L’anno seguente Milwaukee si ferma subito, contro i Warriors di Rick Barry, per tornare però alle Finals nel 1974: fuori Lakers e Bulls, e poi sette sfide contro i soliti Celtics di Havlicek e Cowens.

Nella gara/spareggio, l’ultima nella sua carriera, Robertson regala probabilmente la peggior prestazione di sempre, con più di un’attenuante (prima fra tutte, la veneranda età). Con il suo addio ai campi, i Bucks sprofondano immediatamente, restando fuori dalla postseason con appena 38 vittorie stagionali a fronte di 44 sconfitte. Kareem Abdul-Jabbar lascerà il Wisconsin di lì a poco, accasandosi in California e diventando leggenda dei Los Angeles Lakers.

I “fantastici” anni ‘80 dei Bucks

Con l’avvicendamento in panchina tra Costello e Don Nelson dopo 18 partite stagionali (con appena 3 vittorie), nella stagione 1976/77 si apre sostanzialmente una nuova era. All’ex giocatore dei Celtics basta appena un campionato al timone per riportare i Bucks ai playoff, forte anche della terza scelta assoluta del Draft che si trasforma in Marques Johnson da UCLA. Un’ala piccola che si mette subito in mostra, producendo numeri destinati ad impennarsi negli anni a seguire.

Con la quinta pick del 1979 arriva anche Sidney Moncrief da Arkansas, e con l’arrivo sotto canestro del centro Bob Lanier da Detroit, inizia a prendere forma un gruppo destinato a far bene attorno alla metà dei cosiddetti eighties, seppur in NBA impazzi la sfida (che diviene anche culturale) tra Celtics e Lakers.

Moncrief non è solo un realizzatore continuo (All-Star per cinque anni consecutivi), ma anche un difensore di altissimo livello, tanto da conquistare il Defensive Player of the Year nel 1983 e nel 1984. È proprio in questa stagione che la squadra inizia ad ingranare, conquistando 50 partite stagionali e superando dopo 5 partite gli Atlanta Hawks al primo turno. Contro un giovane Dominique Wilkins ed un Doc Rivers nella sua stagione da rookie.

Le semifinali di Conference iniziano con una sconfitta casalinga contro i Nets di Sugar Ray e di uno strepitoso Darryl Dawkins, contro una squadra muscolare con un giovane Buck Williams a fare la voce grossa sotto canestro. Malgrado tutto, Milwaukee ribalta prepotentemente la serie grazie a Johnson ed il solito Moncrief, per chiuderla in una gara 6 da Hardwood Classics, vinta 98 a 97 in una autentica battaglia all’ultimo secondo. In Conference Finals però, impossibile superare i Celtics di un Bird tremendamente all’apice della sua carriera. I Bucks riescono ad imporsi solo dopo esser finiti sotto tre a zero nella serie, quando non c’è più niente da fare, ma l’obiettivo è quello di ritornare.

La stagione seguente arriva Terry Cummings da San Diego, insieme a Ricky Pierce, ma non va oltre il secondo turno. Nella stagione 1985/86, a seguito di 57 vittorie stagionali, la squadra di Nelson sogna ancora in grande. Peccato che dopo aver spazzato via i Nets, ed aver sudato sette sfide contro i Sixers di Barkley, Cheeks e Doctor J, ad un passo dall’ultimo atto ci siano ancora i Boston Celtics, assoluti dominatori di Conference.

Altra sconfitta senza acuti – stavolta un proverbiale sweep – e non serviranno gli innesti di Jack Sikma e John Lucas per permettere alla squadra di superar l’ostacolo nell’edizione playoff del 1987.
Ancora una volta i Celtics, stavolta in sette partite, nelle Semifinali di Conference.

Poi, al decadere di Moncrief decadono anche le speranze di una squadra che aveva mantenuto una continuità invidiabile nella Eastern Conference del decennio. Pur soffrendo il divario con Boston, ed osservando i progressivi tentativi di sorpasso di Atlanta, Detroit e soprattutto Chicago. Gli anni novanta saranno epoca buia ed avara di soddisfazione, il periodo più lungo di depressione per una franchigia che comunque aveva ben onorato la propria presenza nella lega fin dall’inizio. Capace di reinventarsi, diventando comunque temibile e raramente squadra materasso.

Ancora una volta, la svolta avviene con un cambio in panchina, con l’anarchico George Karl liberato dai Sonics dopo anni da montagne russe, deciso a prender le redini di un gruppo comunque giovane e di talento. Perché in anni di fallimento, dai Draft qualcosa è arrivato.

L’incredibile run playoff del 2001

Prima di poter pescare oggettivamente bene nel Draft – considerando tale una scelta top ten – i Bucks devono aspettare il 1993. Stupiscono tutti portandosi a casa la power forward Vin Baker da Hartford, per bissare l’anno seguente, stavolta forti della prima assoluta. La scelta ricade su Glenn “Big Dog” Robinson, talento di Purdue che desta immediatamente scalpore per il contratto firmato al tempo (68 milioni di dollari per 10 anni, ma a lungo si era parlato di cifre da capogiro tipo 100 milioni), dovendo gestire pressioni piuttosto forti.

Le cose non proseguono benissimo, tanto che nel 1996 (in uno dei Draft più talentuosi di sempre), con la quarta scelta assoluta conquistata in Lottery selezionano Stephon Marbury, una point guard immediatamente scambiata con Minnesota in cambio di Ray Allen.

Giunti a questo punto, la sensazione è che la principale mancanza a roster sia nel ruolo di point guard, dove si alternano Sherman Douglas ed Eric Murdock. Baker viene così sacrificato nell’affare che porterà Shawn Kemp da Seattle a Cleveland, con l’ottimo Terrell Brandon destinato in Wisconsin.

Nel 1999, durante la stagione funestata dal lockout, si rivede anche la postseason. In panchina è arrivato coach Karl, che decide di inserire Brandon in una trade che muove proprio Stephon Marbury (dai Timberwolves ai Nets) e porta a Milwaukee Sam Cassell. Una point guard con la personalità ideale per un coach che ha gestito Gary Payton ai Sonics, regalandogli le chiavi della squadra.

Per due anni consecutivi la corsa dei ragazzi di Karl si infrangerà al primo turno, entrambe le volte contro gli Indiana Pacers, prima di giungere alla stagione 2000/01, quella da 52 vittorie stagionali e della consacrazione definitiva di Ray Allen.

Il talento giunto al quarto anno nella lega, emerge definitivamente come condottiero di un gruppo in cui divide il ruolo di miglior realizzatore con Big Dog Robinson, entrambi sui 22 punti di media.
Cassell funziona da metronomo, contribuendo con 18 punti e 7 assist per gara, e coperto da un buon Lindsey Hunter a funzionare da backup. Ma soprattutto si conferma giocatore chiave Tim Thomas, settima scelta nel Draft’97 dei Sixers, che rinasce dopo la cessione, essendo comunque giovanissimo. Si tratta di un’ala piccola dallo spiccato atletismo, destinato a subentrare dalla panchina come cambio sulla carta di Robinson; spesso una vera e propria arma segreta.

Giunti ai playoff, il primo turno vola via velocemente contro i Magic di uno straripante Tracy MacGrady, troppo solo per poter forzare la serie oltre le quattro partite. Poi, iniziano le battaglie. Nelle semifinali di Conference l’incrocio destina i Bucks contro gli Hornets di Mashburn e Baron Davis. Allen e compagni appaiono squadra più quadrata, ma Charlotte presenta un mix difficile da analizzare: capace di vincere tre gare consecutive dopo aver perso le prime due, con la prospettiva di giocarsi il passaggio del turno nel North Carolina in gara 6.

Con le spalle al muro, i Big3 dei Bucks riescono a rispondere con un deciso colpo di reni, guidati dagli attributi di un Sam Cassell stoico, da 33 punti e 11 assist. Lo strappo, nella decisiva gara 7, si determina in avvio di secondo tempo, con il terzetto formato da Allen, Big Dog e Sam I Am ancora una volta sugli scudi.

Siamo nuovamente ad un passo dalle Finals – che mancano in città dal 1974, nonostante tutto – e l’ultimo ostacolo è rappresentato dai Philadelphia 76ers di coach Larry Brown, Dikembe Mutombo e soprattutto Allen Iverson. Stessa classe di Ray Allen, entrambi prodotti di un Draft ’96 che definitivamente si prende il controllo della lega, con il quale battaglierà per sette estenuanti sfide.

Le due squadre giocano a superarsi e rincorrersi per tutta la serie, con Milwaukee che vede il vantaggio dopo gara 3, per perdere due incontri consecutivi e trascinare il tutto alla “bella”, che si gioca nel tempio di The Answer. E che quest’ultimo onora con una prova sensazionale da 44 punti, 6 rimbalzi e 7 assist (17 su 33 al tiro). Un dominio difficile da contrastare, che lascia i Bucks ancora con l’amaro in bocca, a pochi metri dall’arrivo.

Succederà ancora, molti anni dopo. Servirà pescare un ragazzino dal passaporto greco con la quindicesima scelta del 2013, tutto da svezzare e con un cognome impronunciabile. Lo stesso anno in cui si portano a casa tale Khris Middleton, acquistandolo dai Pistons che a loro volta lo avevano scelto con la trentanovesima del Drafr 2012. Reduce da 27 gare ai limiti dell’invisibilità, all’interno di un pacchetto comprendente Brandon Knight ed il centro Viacheslav Kravtsoy, in cambio di Brandon Jennings.

La riscossa non sarà immediata (in quella stagione vinceranno appena 15 partite stagionali), ma i due cresceranno in modo smisurato vedendo trasformarsi il contorno attorno a loro, raggiungendo le finali di Conference nel 2019 (fuori con i Raptors predestinati al titolo) e schiantandosi contro gli Heat nella bolla di Orlando. Prima di questa edizione bizzarra della postseason, quella in cui l’obiettivo del ritorno alle Finals si concretizza in una serie giocata senza Giannis, in mezzo alle critiche che investono le impostazioni tattiche di coach Budenholzer, superando quegli Atlanta Hawks privi di Trae Young per le gare decisive della serie, comunque di difficile lettura.

I detrattori potrebbero (e vorranno) trovare decine di distinguo sulla stagione, per sminuire il traguardo raggiunto dai Bucks, che rappresenta comunque il coronamento ad una ricostruzione paziente ed esemplificativa, rispetto a come la ruota giri in NBA.

La verità è che la bellezza di cinquant’anni dopo, il Larry O’Brien Trophy potrebbe tornare in Wisconsin, e non si tratta soltanto di un’occasione storica, ma già di un momento da sottolineare nella storia della franchigia.

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Davide Torelli
Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.