Sono ormai passati più di tre anni da quando ho iniziato a copiare spudoratamente la rubrica di Zach Lowe. Era il non così lontano 2019: Kawhi aveva da poco lasciato il Canada, atterrando a Los Angeles poco dopo Anthony Davis. La lega era stata scossa dal doppio terremoto Clippers-Nets, si chiudeva l’area dei Big3 e si apriva quella dei cosiddetti Power Duo. La gente dava già allora LeBron James per finito, lo scettro di miglior giocatore della lega pareva essere passato in mano al killer silenzioso da San Diego State, perlomeno in attesa del ritorno di KD dall’infortunio al tendine d’Achille. Giannis? Ah signora mia, finché non mette su un tiro da 3 credibile cosa vuoi che combini quel greco…
Insomma, avete capito. Tante cose sono successe in NBA in questi anni, e questa è la ragione principale per cui ho deciso di tenere questa rubrica allora: perché l’NBA è una lega che non dorme mai. Anche il più attento degli osservatori perderà per strada un sacco di interessanti spunti di riflessione durante la stagione, perché seguire trenta squadre è impossibile per chiunque. Quindi, se state cercando un senso a questa rubrica è questo: rendere noto a più persone possibili che determinate cose stanno accadendo nella lega. Non ne ha altri, è uno zibaldone di osservazioni sparse, siano esse miglioramenti di giocatori già arcinoti, particolari set chiamati da allenatori in determinate circostanze, trend della lega, giocatori che stanno salendo alla ribalta, altri che stanno crollando, giovani virgulti che sbucano per la prima volta da dietro le quinte del palco che conta…qualsiasi cosa mi sia saltato all’occhio nell’ultimo mese NBA. Bentornati ad Otto Appunti!
L’alba delle guardie rollanti
Lo sappiamo, l’NBA è una lega che vive di trend. Golden State vince con la small ball? Tutti provano a giocare small ball, perché ora è così che si vince. LeBron ha vinto quattro titoli da megacreator? Tutte le prossime scelte numero 1 devono essere megacreator, perché quel tipo di giocatore è il migliore in assoluto. La verità è, come al solito, che non esiste un unico modo per tentare di vincere, che tutto dipende dalle caratteristiche dei singoli giocatori e via avanti, ma la lega non lo sa e continua a vorticare in un ciclico CTRL+C/CTRL+V. A volte però questi trend sono davvero divertenti, e questo è il caso con la moda autunno-inverno 2022, i giocatori perimetrali che bloccano (o per meglio dire, slippano) in punta o in ala e poi rollano forte a canestro.
Mikal Bridges è probabilmente il giocatore che più ha messo in mostra questo tipo di azione nel primo mese di gare: lo swingman da Villanova si sta prendendo il 35.7% dei suoi tiri al ferro (dove realizza col 80.5%), in forte aumento rispetto al 22.7% della scorsa stagione, e molti di questi tentativi arrivano proprio dopo un blocco che lui stesso ha portato. Ovviamente questo tipo di soluzione non deve necessariamente concludersi con un tiro del rollante: come ci ha insegnato il capostipite dei giocatori perimetrali rollanti, Bruce Brown Jr, spesso il vantaggio sta proprio nel far collassare i difensori dei giocatori in angolo sul rollante, così che questo possa poi trovare i tiratori liberi sul perimetro. Esegue il maestro Marcus Smart.
La cosa bella di questa soluzione è che è tanto più efficace quanto migliora la qualità del movimento corale della squadra. Al giocatore perimetrale che è riuscito di incunearsi nella difesa avversaria si aprono le porte di un comodo 4-contro-3, ed a volte esistono soluzioni persino più convenienti del cercare il tiratore nell’angolo. Se ti chiami John Wall, ad esempio, puoi persino permetterti un passaggio no-look per il tuo centro che sta tagliando lungo la linea di fondo dopo aver fatto credere alla difesa che servirai un tuo compagno in ala.
In America dicono che la NBA sia una “copycat league“: sarà anche vero, ma a me questo trend piace e non poco.
L’umiltà di Giannis
Ne parleremo anche in una sezione successiva, ma è evidente che lo status di stella in NBA venga spesso attribuito a superstar che giocano molto con la palla in mano. Insomma, non siamo abituati ad identificare il migliore giocatore sulla faccia del pianeta con uno che fa il lavoro sporco e porta blocchi senza sapere se poi il gioco sarà effettivamente per lui o meno, anche se forse dovremmo cominciare a farlo.
Provate a fare un salto all’indietro nel tempo alla primavera 2021: di Giannis si lamentava la scarsità di opzioni palla in mano, la sua prevedibilità, la sua incapacità ad agire da semplice 5 rollante, ruolo che avrebbe potuto ricoprire tanto più avendo due portatori come Holiday e Middleton in squadra, oltre che un centro in grado di giocare anche a otto metri da canestro in Brook Lopez. Un primo miglioramento avvenne proprio nella run playoff che culminò con l’anello, in particolar modo nelle Finals contro i Suns, in cui Giannis lasciò molte più responsabilità palla in mano a difesa schierata a Jrue e Khris rispetto al passato: la strategia diede i suoi frutti. Nemmeno due anni dopo, Giannis è di fatto un 5 a tempo pieno in attacco.
Nelle ultime due stagioni si è cercato di spiegare il miglioramento di rendimento ai playoff del greco in termini di ritocchi alla tecnica di tiro, di percentuali ai liberi e altri aspetti meramente ascrivibili alla sfera dei fondamentali di tiro e passaggio. In realtà le percentuali dalla media, da tre e ai liberi sono rimaste più o meno sempre quelle del buon caro vecchio Giannis delle annate da MVP, è solo che ora senza nemmeno che uno se ne accorga Antetokounmpo si ritrova con 35+15+8 in 30′.
Mettendola giù piuttosto duramente, ed in termini francamente troppo severi nei confronti del greco, si direbbe piuttosto che Giannis abbia finalmente deciso di lasciarsi allenare. Ma non dovremmo dare affatto scontato che il migliore giocatore del pianeta sia d’accordo con il non avere palla in mano.
Fate spazio a Zion
Per favore, prendete alla lettera il titolo di questa sezione. Vi riporto solo un dato, poi vi farò vedere alcune azioni: Zion sta tirando col 25% nella zona del pitturato che non è restricted area.
Quello che si può osservare nell’azione precedente è abbastanza chiaro: la presenza di Valančiūnas vicino a canestro porta un difensore aggiuntivo (KD) nei pressi di Zion, e a poco vale l’allontanarsi del lettone dal ferro. Il 5 titolare dei Pelicans non è considerato un tiratore rispettabile, ed un tentativo di Vala a cinque metri dal canestro è sicuramente un risultato migliore per la difesa rispetto ad un appoggio al ferro di Zion: KD aiuta forte sulla rollata del prodotto da Duke e stoppa la conclusione. Non credete che questo sia stato un caso isolato. Anche quando segna, Zion si trova spesso davanti un muro formato da almeno un paio di difensori, più ovviamente il suo non propriamente piccolo compagno di squadra.
L’inizio di stagione dei Pelicans non è stato dei migliori. Zion non è certamente un giocatore facile da integrare nei meccanismi di una squadra, ma è senza ombra di dubbio l’uomo franchigia di New Orleans, ed in quanto tale è dovere di un buon GM mettergli attorno un’infrastruttura tale da farlo rendere al meglio. Ecco, piazzargli vicino un cinque le cui caratteristiche migliori stanno nei rimbalzi offensivi e nei movimenti in post vicino al ferro forse non è stata una scelta oculata, e la maggior parte di chi guarda basket era stata facile profeta nell’estate 2021.
Al momento, il Net Rating dei Pels è un dignitoso +2.6, ottavo nella lega. Questo numero sale a +2.8 con Zion in campo, ma crolla a -2.0 con le lineup che schierano sia Williamson che Valančiūnas, e non c’è alcun tipo di shooting luck coinvolta. Insomma, i segnali di fumo sono chiari: la coppia probabilmente dovrebbe essere separata, e la decisione su chi tra i due tenere a roster è a dir poco facile da prendere.
Siakam è il miglior playmaker dei Raptors
Che il cruccio di Toronto da ormai diverse stagioni sia l’attacco a difesa schierata è ormai cosa arcinota. VanVleet è un ottimo playmaker (e mio personalissimo pupillo), ma è troppo piccolo per poter gestire un attacco che voglia fare una run playoff profonda. Possibile che Barnes un domani possa diventare una sorta di Giannis lite con doti da passatore ancora più spiccate del greco, ma non è una soluzione ad oggi. Ad inizio stagione, non vedevo possibili soluzioni al problema. Poi ho guardato un paio di gare dei Raptors, ed il signore col numero 43 sulla maglia ha colto la mia attenzione.
Siakam ha superato i 5 assist di media a notte per la prima volta in carriera solo la scorsa stagione (e di poco, 5.3), peraltro con un rapporto assist/palle perse inferiore al 2 (perdeva 2.7 palloni a partita). Nelle nove gare che ha giocato quest’anno prima dell’infortunio ha abbattuto questa barriera, sfornando quasi 8 assist a notte senza aumentare di una virgola le palle perse. Quello che più salta all’occhio, e che fino a qualche mese fa Siakam certamente non era in grado di fare, è la capacità del camerunese di manipolare la difesa avversaria, ricercare pazientemente il mismatch giusto e poi prendere la giusta decisione, sia essa attaccare il malcapitato di turno o servire cioccolatini da scartare ai propri compagni.
Questa sua nuova caratteristica è risaltata in tutto il suo splendore nella doppia sfida contro i Miami Heat, in cui Pascal ha cercato incessantemente Max Strus per poi batterlo dal palleggio per due facili punti o per trovare i compagni aperti sul perimetro.
Ad inizio stagione, Toronto sembrava intrappolata nella terra di nessuno, a metà strada tra l’andare all-in sullo sviluppo di Barnes e l’essere un’alternativa credibile alle prime della classe ad Est. Probabilmente i canadesi sono ancora in quel limbo, ma con un Siakam così non è irrealistico pensare che siano una trade lontani dall’essere nuovamente contender.
Jerami Grant, professione automa
I Portland Trail Blazers sono una delle sorprese maggiori di questo inizio di stagione (almeno per chi scrive): sebbene il record di 9-3 dipinga la loro stagione in maniera forse un po’ rosea rispetto all’effettiva bontà dell’operato, è innegabile che la squadra di Coach Billups sia stata una delle migliori ad Ovest in questo inizio di stagione. Il tutto assume connotati ancora più positivi tenendo in conto l’infortunio al totem Lillard. Le ragioni di questa partenza sono molteplici, ma la prima per importanza risponde al nome di Jerami Grant.
Dopo anni da terzo/quarto violino a Denver in cui si mise in mostra come ottimo 3&D, Grant ha deciso di provare la fortuna come uomo franchigia a Detroit: esperimento dall’esito discutibile, ma in cui Grant ha certamente messo in mostra delle capacità che i più non gli attribuivano.
Dopo Detroit, la fermata Portland: in medio stat virtus, almeno così pare. Grant sembra aver trovato la dimensione perfetta per lui: non sono i 9 tiri a notte di Denver, nemmeno i 18 della prima annata a Detroit, ma la quasi esatta via di mezzo a 13. La dieta di Grant consiste di una sana dose di triple, e se siete rimasti al tiratore a volte un po’ titubante che indossava la casacca azzurra della franchigia del Colorado ho delle notizie per voi: Jerami Grant è migliorato ulteriormente dal perimetro, tanto che ora si prende regolarmente triple senza far scendere il pallone dopo la ricezione. Guarda mamma, come Klay!
Ah sì, non è che gli è riuscita per caso: sembra proprio essere una nuova arma nell’arsenale.
Grant è un giocatore che torna utile su entrambi i lati del campo, e questa etichetta da 3&D che gli è stata appiccicata addosso nel corso degli anni ha fatto dimenticare ai più che la principale caratteristica di Grant in attacco è il saper mettere palla a terra ed arrivare al ferro con relativa facilità. Ha taglia notevole per la posizione, sa assorbire i contatti al ferro e sa venderli quando serve, tanto da andare in lunetta sei volte a partita, numero notevole per un giocatore da 13 tiri a notte.
Mi dichiaro colpevole di aver probabilmente sottovalutato l’impatto che Grant avrebbe avuto a Portland, e sono ben contento di farlo. Il prodotto da Syracuse è partito dal basso, scelto al secondo giro da Sam Hinkie e firmato con un contratto pluriennale non protetto, il famoso Hinkie Special. Da lì in poi, non ha mai smesso di lavorare e migliorare, aggiungendo qualcosa alla gamma di soluzioni ogni anno.
30 is the new 20
Quand’ero ragazzino giocavo nella squadra di basket delle medie. Non eravamo fortissimi, non facevamo eccessivamente schifo…solitamente ce la giocavamo bene con le altre scuole. Tranne contro una particolare scuola di Udine, che mi ricordo ci rifilò qualcosa come 30 punti di scarto. C’era questo ragazzino in particolare che le metteva tutte: a pochi minuti dalla fine il coach lo levò per far giocare anche gli altri, lui andò al “””tavolo delle statistiche””” e cominciò a saltare dalla gioia. Aveva appena scoperto di aver sfondato la quota dei 20 punti.
Una volta essere uno scorer da 20 punti a partita era davvero tanta tanta roba, ecco perché quel ragazzo saltava: bene, ad oggi in NBA ben 42 giocatori stanno segnando più di 20 punti a notte. Se questo numero vi sembra alto, è perché è alto per davvero: nel poi non così lontano 2014-15, l’annata del primo anello Warriors, i giocatori in grado di chiudere la stagione sopra i 20 punti di media furono appena 15. Appena due anni prima, l’anno del secondo titolo dei Big3 a Miami, solamente in nove chiusero sopra i 20 punti di media. Ad ora, nell’anno domini 2022, sono 7 i giocatori sopra i 30 di media. Quindi sì, possiamo dire che 30 is the new 20, e che quindi dovremmo ritarare molte nostre connessioni mentali e spostare un po’ più in alto l’asticella di ciò che consideriamo “uno scorer eccellente“.
Da cosa è dovuto questa inflazione? Prendiamo come riferimento la stagione 2012-13, e confrontiamola con quella corrente. In primis, il pace è decisamente più alto: ad oggi si giocano 99.5 possessi in una gara contro i 92 di dieci anni fa. In secondo luogo, l’Offensive Rating (cioè il numero di punti segnati da una squadra per 100 possessi) è anch’esso molto più alto, 111.8 contro i 105.9 di allora. Se mettete insieme questi due dati, otterrete che la squadra media nella NBA di dieci anni fa segnava 98.1 punti a gara, mentre in quella odierna questo numero scihzza a 112.4. Morale della favola: ballano 14 punti in più a notte, e qualcuno dovrà pur segnarli.
Certo, è solo l’inizio di stagione e le difese devono ancora ingranare, ma di solito anche gli attacchi ci mettono un po’ a mettersi in moto. Ci sono altri fattori che concorrono all’effetto finale, in primis il modello eliocentrico a cui accennavo in un precedente punto: al giorno d’oggi, come peraltro fu nell’era di Jordan e negli anni immediatamente successivi, la stella deve necessariamente avere sempre palla in mano (e, corollario non logicamente conseguente, prendersi tanti tiri), altrimenti non è tale. Basti pensare che dieci anni fa solo cinque giocatori avevano uno Usage Rate maggiore del 30%, mentre oggi sono 18. A fine anni 90/inizio anni 00 il responsabile di questo trend fu MJ tanto quanto ora è probabile lo sia LBJ.
Quindi, per tirare le somme, messaggio rivolto soprattutto a chi segue la NBA da un po’: tenete a mente che i 20 punti di oggi non sono i 20 punti di dieci anni fa. E non dipende da difese meno cattive o altro, è probabilmente una tempesta perfetta scatenata da diversi fattori, alcuni legati prettamente al gioco, altri meno. Per i nuovi arrivati: il fatto che ora si segni più di una volta non è principalmente dato dal fatto che al giorno d’oggi i giocatori siano mediamente “più forti”. Possibile (oserei persino dire probabile) che le abilità dei singoli giocatori siano più orientate a segnare di più, vero, ma i fattori che determinano in primis questa esplosione di punti sono altri.
Isaiah Hartenstein crea il vuoto
Hartenstein è probabilmente il miglior centro di riserva della lega, e se non il migliore è sicuramente sul podio. Mi spingo a dire che Hartenstein è il miglior centro a roster per i Knicks, e dovrebbe senza troppi dubbi partire nel quintetto titolare. L’impatto del tedesco sulla partita è tangibile, ben più evidente dalla pellicola che dalle statistiche base (7 punti e 8 rimbalzi in 25′ di gioco). La cosa che più mi è saltata agli occhi guardandolo giocare è quanto poco gli interessi di prendere il rimbalzo rispetto a quanto invece si dà da fare affinché la propria squadra vinca la lotta sotto le plance. Ben prima che la palla abbia lasciato le mani del tiratore, Hartenstein ha già scacciato il suo diretto rivale, lo ha messo a distanza di sicurezza dal proprio ferro. Hartenstein colpisce le bocce avversarie affinché la boccia del suo compagno vada il più possibile vicino al punto.
In una lega in cui troppo spesso il giocatore medio vuole pompare le proprie statistiche al fine di ottenere il miglior contratto possibile, i front office più intelligenti sono quelli che sanno andare oltre i meri dati di base: chiedere a Seth Partnow, allora capo del data analytics dei Bucks, di come spinse per la firma di Brook Lopez (allora al minimo!), portando come motivazione proprio il fatto che fosse un ottimo rimbalzista, nonostante i suoi 6 rimbalzi di media in carriera sembrerebbero suggerire altro.
Hartenstein è primo nella lega per tagliafuori portati per 36 minuti (poco avanti a Sengun), ma il bello arriva ora: quando Hartenstein mette il suo corpo al servizio della causa, i Knicks prendono il 90.3% dei rimbalzi. Di questi, il tedesco ne prende poco più del 30%. Tradotto: Hartenstein è sì un rimbalzista da (circa) 16 rimbalzi per 100 possessi, ma in realtà sotto i canestri impatta molto più di così.
Questa totale abnegazione per la causa ha anche dei vantaggi secondari, come per esempio favorire la transizione in attacco (è certo meglio che sia un giocatore perimetrale a portare su palla rispetto ad un lungo). Isaiah Hartenstein crea il vuoto, e tanto gli basta.
Bennedict Mathurin is the real deal
Il premio di rookie dell’anno andrà, a meno di imprevisti stile Monopoli, a Paolo Banchero com’è giusto che sia, ma la matricola che più di tutte mi è piaciuta in questo inizio di stagione è, con del distacco sul secondo, Bennedict Mathurin.
Ci sono molte ragioni per cui il profilo di Mathurin mi affascina, ma credo che sotto sotto tutto nasca dal parallelo con Reggie Miller: è curioso che quello che sembra essere il profilo più vicino al Knick Killer degli ultimi vent’anni sia atterrato proprio per Indianapolis. Mathurin ha una versatilità che raramente si trova in giocatori così giovani, tanto meno nel 2022. Mescola sapientemente movimenti lontano dalla palla a un primo passo bruciante, proprio come Reggie faceva, è un tiratore da 3 decisamente buono, e soprattutto sembra sempre che la partita che sta giocando sia questione di vita o di morte: Mathurin punta alla gola dell’avversario, sempre. Vi ricorda qualcuno?
Mathurin è probabilmente sin da ora uno dei migliori atleti della lega nell’effettuare la cosiddetta relocation, cioè nello spostarsi sul perimetro al fine di farsi trovare nel posto migliore per un passaggio facile: guarda costantemente dove si trova la palla, segue lo sviluppo dell’azione, cerca sempre di trovare una linea retta che connetta lui e la sfera arancione e che non tagli nessun altro corpo.
Come se non bastasse, Mathurin attacca il ferro con continuità. Sono quasi sei i liberi che si prende a partita: non ha paura del contatto ed ha un gran controllo del corpo vicino al cilindro, oltre che un tocco degno dei migliori finisher (segna sin da ora il 71% delle conclusioni al ferro).
Maturin è così bravo al ferro che quasi quasi viene da pensare che quello sia il piatto forte del suo gioco, con buona pace del 44% su quasi 7 triple a partita che sta facendo registrare.
Mathurin probabilmente finirà per non essere il miglior giocatore della classe (anche se…), ma se dovessi scommettere una lira su chi sarà il personaggio di culto tra le matricole, il nome su cui punterei sarebbe proprio il suo.
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