Per raccontare lo straordinario avvio di stagione di Stephen Curry, dobbiamo partire da un piccolo fastidio occorsogli recentemente. Qualcosa – gli infortuni di grave o media entità – di abbastanza ridondante all’interno delle 12 stagioni NBA disputate precedentemente a questa.
Si tratta di un poco preoccupante problema all’anca, emerso a seguito della sfida con i Nets del 17 novembre. Vinta dai Dubs per 117 a 99, con 37 punti e 9 su 14 dall’arco del nostro osservato speciale.
Prestazione scaccia-dubbi coronata da una super performance: potrebbe riposare nella gara seguente a Cleveland, si dice. Anche perché siamo nel bel mezzo di un tour ad est per i Warriors, ed i padroni di casa saranno rimaneggiati dalle assenze.
E invece a poche ore dall’avvio, la notizia è che Steph dovrebbe scendere sul parquet. Ma sarà a mezzo servizio, si pensa. Che non c’è bisogno di forzare. La partita però non si mette facilissima per i ragazzi di Kerr, e serve uno sforzo in volata: 20 punti di Curry nell’ultimo quarto, dei suoi 40 totali. Tre triple consecutive a segno, sulle 9 registrate a referto a fine gara. Nessun “terzo quarto Warriors” per una volta, ma una frazione conclusiva che termina 36 a 8 per Golden State. Inutile specificare grazie alla spinta di chi.
Eppure – anche se sembra un’era geologica fa – dopo la prima manciata di partite stagionali, a fronte di un già ottimo avvio di squadra, si insinuava di uno Steph meno preciso del solito soprattutto nei finali. Magari con qualche difficoltà favorita dal nuovo pallone, o chissà cosa. In realtà, niente: passano un paio di settimane, e si torna a parlare di lui in chiave MVP. E voi direte che si tratta di storia già sentita; già pochi mesi fa, seppur con un record che non giustificasse il premio (difatti finito a Jokic).
Il primo tema è proprio questo, la ridondanza. Se Stephen Curry è in campo e sta bene, ci costringe a dire frasi fotocopia di stagione in stagione, da troppi anni. Tanto che viene lecito pensare, contemplando le evidenze, cosa altro ci sia da dire su di lui.
Cosa scrivere ancora su un giocatore tanto incredibile, game changer se ce n’è uno in attività, in grado di elevare i compagni con la sua semplice gravity, o con il suo QI cestistico?
Nel rinnovato – e quindi straordinariamente rinnovabile – sistema di Kerr, Curry non solo rappresenta uno dei pilastri dello stesso. Curry è il sistema, le altre costanti Green e Thompson son da vedersi di riflesso. Lui è il perno che permette a Golden State di bruciare ogni ottimistica previsione di avvio stagionale, elevandosi a contender con Klay ancora ai box, e con il terzetto di giovani da iniziare ad inserire.
Nella NBA dell’ultimo decennio, di contro, rappresenta indubbiamente Il Cambiamento. Ed il secondo tema indispensabile da introdurre, non può essere che quello della rivoluzione. Che nel bene o nel male – anche se a vederci del male dietro, si fatica – il figlio di Dell (e fratello di Seth) rappresenta per personificazione. E neanche troppo metaforica.
The Revolution
No, non è esagerato definirlo così. A questo punto della sua carriera, diviene più crudo di quanto non apparisse nei toni apocalittici di qualche anno fa. Quando tutti si riempivano la bocca di frasi che centravano più o meno il paragone tra il suo stile ed il gioco di un videogame. E tutto questo per più di una ragione, ovviamente. In un disegno che appare ancor più nitido e particolareggiato se osservato oggi, a distanza di tempo ed ancora lontanissimo da un eventuale completamento.
In primissima istanza, perché ha letteralmente cambiato la geografia del gioco, trasformando il tiro dall’arco da fondamentale importante ad elemento decisivo, nella rincorsa verso l’efficienza offensiva massima. Lo ha fatto praticandolo tanto e bene: 11 tentativi per 5 realizzazioni di media nella stagione 2015/16, quella che davvero sembra rivoluzionar tutto.
Secondo MVP consecutivo per lui (all’unanimità stavolta), 73 vittorie stagionali per i suoi che infrangeranno un record incredibile, pur schiantandosi contro i Cavs di LeBron in finale.
Non riuscendo a completare così un back to back che sarebbe arrivato a seguire, con l’approdo di Durant nella baia ed il nostro a doversi reinventare seconda opzione offensiva di squadra. Almeno in apparenza, perché c’è il discorso della gravity. Non una cosa da poco. Come se non bastasse sparare triple da ovunque con percentuali irreali, bucando in penetrazione i diretti avversari quando costretti a marcarlo incollati fin dal superamento della metà campo.
Con uno come Steph, la difesa non può mai dormire sonni tranquilli, ed è costretta ad inseguirlo in ogni angolo della metà campo offensiva: è così che si crea lo spacing perfetto, soprattutto per un gioco in motion come quello di Steve Kerr. Un sistema coeso che resiste al tempo perché evidentemente c’è lui al centro, con le sue peculiarità. Che narrano di una visione di gioco più espansa di quanto i numeri non raccontino, di un senso della posizione che lo porta anche ad essere un discreto rimbalzista per la taglia, e poi del suo gioco senza palla. Non rapido, ma in moto perpetuo. Caratterizzato da tagli intelligenti e spostamenti che, complice la gravity prodotta di cui sopra, lo rendono uno dei creator più produttivi di sempre off the ball.
Ora, per qualcuno Stephen Curry ha creato una evoluzione stilistica che ha rovinato il senso della pallacanestro, o quantomeno lo ha mutato diametralmente. Gli stessi che non riescono a sopportare il volume di triple tentate negli attacchi odierni, vedono in lui il rivoluzionario malvagio che distrugge un ordine consolidato. Rendendolo monotono ed inguardabile a tratti.
La verità, è che a prescindere dai successi dei Warriors e dell’attitudine di Steph ad esemplificazione, il numero 30 ha semplicemente interpretato al meglio un trend già avviato e fondato su evidenze matematiche indiscutibili. Della serie, ai fini del risultato è più produttivo tirare con il 35% da tre punti, che essere sul 50% di realizzazioni dal mid range. Per far questo, è ovvio che la rincorsa verso percentuali dignitose per un aumento dei volumi, preveda la costruzione di ottimi tiri, per la quale il movimento degli attaccanti risulta decisivo nel creare gli spazi adatti (favorendo la circolazione di palla).
Non dico niente di nuovo, ne sono consapevole. Semplicemente vedere i Warriors di Kerr evolvere il “from good to great” di Popovich, può apparire semplice solo dando colpevolmente per scontato i talenti di Curry. Guardando unicamente alla conclusione dell’azione, non alla sua strutturazione.
La domanda da porsi, semmai, era capire se tutto il resto – il contorno – poteva modificarsi o meno.
Se Golden State sarebbe riuscita a tornare quella squadra, con quel gioco offensivamente perfetto, che è stata fino allo sfortunato ultimo atto del 2019. Forse è presto per dirlo, ma questo avvio di stagione sta fornendo risposte piuttosto chiare, al netto del ritorno di un giocatore come Iguodala (ma di un Klay non ancora rientrato). E l’uomo della coesione in campo, manco a dirlo, è sempre lui. Stephen Curry, La Rivoluzione.
Cohesion
Pensare a Curry come semplice collante in un sistema appare riduttivo, ma tra i suoi talenti c’è anche questo potere vero e proprio. È sufficiente osservare quanto il mercato estivo dei Warriors partisse da chi, lo scorso anno, è stato in grado di sapergli giocare a fianco o meno. Investendo su peculiarità che anche alla lunga (vedi le scelte al Draft, per ora inserite con il contagocce), potevano sposarsi con tutto quello che rappresenta. E quindi le conferme di Pool e Lee, la non sorprendente ascesa di Wiggins e l’impressionante Bjelica di queste prime gare, sono risultante di una progettualità. Non scelte azzeccate da Bob Myers, magari su consiglio azzardato di Kerr.
Un successo tanto rapido – e al netto delle assenze – era quindi prevedibile? No, non così tanto.
Almeno, con tutto l’amore e la lungimiranza del mondo, nella preview stagionale il sottoscritto non lo aveva immaginato.
E questo perché Steph sta funzionando da costante, pur con una partenza meno incisiva del passato. Sfiorando attualmente i 30 punti, con 5 triple su 13 tentate, quasi 6 rimbalzi ed oltre 6 assist per partita disputata. 63,8 di true shooting. Ma per capire quanto tutto sembri più di un déjà vu, Curry ha già fatto registrare 10 stoppate in questa stagione (lo scorso anno, 8 totali in 63 gare), viaggiando vicino ai due recuperi di media (1.7 al momento) per la squadra con il miglior defensive rating della NBA.
Ma il rendimento statistico, fotografa solo il parte il ruolo ricoperto in campo in materia di coesione di squadra. Fondamentale per un gioco offensivo in movimento, tendenzialmente corale e fondato sull’osservazione reciproca. Elevando il suo gioco, Stephen Curry eleva di riflesso anche quello del contorno, senza privilegiare tipologia di compagni. Come il direttore di orchestra che sa valorizzare le singolarità di un gruppo che lo segue all’unisono, non disdegnando assoli di prestigio nel contempo.
Prendiamo quattro esempi tra i più recenti.
A proposito di gravity, partiamo dall’immediato inizio della vittoria dei Warriors sui Raptors.
Gara poco ispirata con Steph, che la chiuderà con appena 12 punti con 2 su 10 dal campo (1 su 6 da tre punti).
Eppure, basta la sua ricezione sulla rimessa per attirare tutta la difesa su di sé, ed il suo tentativo di penetrazione. A quel punto, è sufficiente opzionare la situazione più produttiva, in questo caso un wide open dall’angolo di Poole (piuttosto che lo scarico per Green, che probabilmente avrebbe favorito un ribaltamento). E questo è appena l’esordio di una partita, per intendersi e comprendere quanto l’influenza a priori di Curry determini i comportamenti difensivi altrui, anche inconsci.
Una questione replicata spesso, nel favorire tiri comodi per i compagni. Nella clip seguente, il beneficiario di una penetrazione analoga è Andrew Wiggins, a dimostrazione del perché sia stato ritenuto elemento adatto al sistema Warriors, dopo la sua prima stagione nella baia. Saper calcolare l’imprevedibilità di Curry, muovendosi di conseguenza, è prerogativa fondamentale per capitalizzare la sua influenza.
Nella fattispecie, Steph attira su di sé l’aiuto di Plumlee dopo aver battuto Rozier in penetrazione, costringendo Hayward a ruotare per chiudere su Looney, lasciato libero nell’angolo (ed in movimento verso il pitturato). Contemporaneamente Wiggins compie quel mezzo passo indietro che aumenta lo spazio fra lui ed un potenziale accorrente, permettendosi un tiro non contestato. Anzi, si trova equidistante sia dal suo diretto difensore che dall’eventuale rotazione di Bridges, che non arriva. E che se mai fosse avvenuta avrebbe permesso un semplice ribaltamento di palla attraverso Green.
Insomma, basta poco per migliorare l’angolo di passaggio di Steph, e costruirsi un wide open ad altissima probabilità di successo.
Il punto è saper esattamente dove farsi trovare, ma anche esser coscienti di poter pescare eventualmente il compagno. Sempre calcolando la sua tendenza a muoversi per occupare spazi non previsti dalla difesa.
In questo contropiede favorito da un suo recupero, Curry scompare dallo schermo durante la fuga solitaria di un lanciatissimo Lee, che rischia di finire sprecato in un uno contro tre. Anche perché Kuminga, che segue la transizione, tende a stringersi verso il compagno piuttosto che mantenersi largo, regalandogli un potenziale passaggio fallimentare mentre cerca soluzioni in aria. Steph chiama la palla, ma si fa trovare non solo in una posizione inusuale (dietro la possibile visuale permessa al compagno), ma pure spara una tripla in catch and shoot.
Per quanto senza opposizione reale, un tiro non facile da realizzare perché arriva a conclusione di un movimento lanciato in corsa. Una roba che qualche anno fa sarebbe stata bollata come “un pessimo tiro”, o generalmente “un contropiede sprecato”. Invece, sono tre punti a referto che seppelliscono definitivamente i Nets nella gara del Barclays Center.
Stessa partita, nei primi minuti di gara, ed azione che denota quanto sia rapida la sua capacità di lettura delle difese in opposizione. Obbligatorio quindi prestargli attenzione, soprattutto giocandoci a fianco.
La rimessa di Poole per Wiggins prevede uno scambio con Steph a seguire, ed il numero 30 di Golden State capisce immediatamente lo switch degli avversari. Non c’è quindi da perder troppo tempo, per sfruttare il vantaggio ottenuto: ricezione e scarico (al volo) verso Poole sono un tutt’uno. Permettendo a quest’ultimo di sfruttare il lieve ritardo di Bruce Brown, attirato dal seguire la marcatura. La linea di fondo è libera, e verso il canestro si apre un’autostrada da percorrersi in rapidità, per due punti facilissimi.
Unpredictability
Insomma, provando a riassumere: Stephen Curry è l’entità rivoluzionaria alla base del sistema offensivo di Golden State, rinvigorito in questo avvio di stagione e perfettamente equilibrato con una efficienza difensiva da primi della classe. In questo momento più che mai, rappresenta l’elemento di coesione fondato su una sostanziale imprevedibilità di azione, favorita da skills talvolta impossibili da arginare. Come le sue capacità balistiche.
Imprevedibile lui, imprevedibile il futuro di questi Warriors però. Perché per quanto l’avvio fosse inaspettato, i punti interrogativi restano i medesimi di inizio stagione. E riguardano i rientri di Wiseman e Thompson. Se quest’ultimo potrà reinserirsi a piccoli passi in un sistema che conosce a menadito, la seconda scelta assoluta del draft 2020 potrebbe generare non pochi disequilibri. Anche perché le sue peculiarità non appaiono facili da sposarsi con il resto, seppur viste poco lo scorso anno.
I prossimi due mesi non presentano un calendario facilissimo per i ragazzi di Kerr, incluse due trasferte previste nell’altra costa, ed è molto probabile che qualche vittoria possa esser lasciata per strada, nel tentativo di accordar tutti i suoni. Soprattutto considerando il ritmo tenuto ad oggi, ed il fatto che le mire stagionali appaiono cambiate di conseguenza.
Passare da “buona squadra” a “contender” nell’immaginario collettivo, può favorire un innalzamento di pressioni potenzialmente dannoso, in caso di qualche passo falso reiterato. E poi c’è la deadline, e tutto quello che può portare con sé.
Con Klay in forma, Wiseman inserito ed il resto della truppa che prosegue invariato, i Warriors possono puntare al titolo? Oppure ha più senso scommettere su un innesto di prestigio, impacchettando qualche giovane ed un contratto più voluminoso, per prendere una quarta star in grado di vincere subito?
Entrambe le due opzioni portano con sé prospettive rosee ma anche rischi imprevedibili. Le scelte della dirigenza saranno fondamentali, ed il successo o meno della stagione dipenderà da quelle e dagli obiettivi realisticamente auto prefissati dalla stessa, in connubio con lo staff tecnico.
In tutta questa incertezza però, la costante resta sempre Steph (con tutti gli scongiuri del caso in materia di salute). Con lui, tutto è lecito. Senza di lui, non si gioca nemmeno. Tanto imprevedibile da favorir l’unica garanzia attorno alla quale si muovono gli orizzonti possibili di squadra. Che a questo punto appaiono più vasti di quanto non sia il range di tiro del suo giocatore franchigia.
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