5 storyline da seguire per la stagione NBA

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Copertina di Sebastiano Barban

Amici di True Shooting, ci siamo. Inutile indugiare troppo: la stagione NBA riparte, e quelle Finals terminate a pochissimi giorni dal torneo olimpico, appaiono tanto lontane da confermare quello stato di irrequietezza che contraddistingue tutti gli appassionati a questo punto dell’anno.

Proprio partendo da qui, per ingannare un po’ il tempo tra una partita di preseason e l’altra, andiamo a tracciare cinque temi da seguire, all’interno del densissimo insieme che li comprendono. Cercando di lasciar perdere quelli più scontati, dibattuti se possibile già da tempo, tipo i dubbi sulla funzionalità del roster dei Lakers o la forza eccessiva di quello dei Nets. Che poi, come vedrete, in un modo o nell’altro riescono comunque a rientrarvici.

Cinque spunti di interesse, che indubbiamente catalizzeranno i dibattiti dei prossimi mesi, prima del decretar sentenze.

2021/22: ritorno alla normalità?

Argomento già da toni annosi, declinabile in differenti ambiti delle nostre vite. A livello NBA sta per iniziare la terza stagione di convivenza con la pandemia, e la curiosità di capire se la cara e vecchia normalità possa tornare – e resistere – o meno, passa attorno all’efficacia dei vaccini, e soprattutto alla diffusione degli stessi.

Inutile ricordare quanto penalizzante sia stata la scoperta del SARS-CoV-2 agli albori del 2020, con la “soluzione bolla” e la seguente maratona dello scorso campionato. Con poco tempo per recuperare, il calendario falcidiato dai protocolli, le arene vuote ed il quantitativo di infortuni a giocatori di spicco nel 2021.

Adesso, con l’opportunità degli anticorpi protettivi derivati dalla massiccia campagna di vaccinazione occidentale, tutto sembrerebbe pronto per una ripresa più serena. Ma come nella società in cui ci muoviamo ogni giorno, anche nell’universo della National Basketball Association tocca convivere con scetticismi e legittima libertà di scelta a riguardo. Legittima in teoria, e non per tutti. Almeno secondo le discutibili regole imposte dalla lega.

Si, perché se da una parte la vaccinazione è obbligata per pubblico, addetti ai lavori, coaching staff ed arbitri, per i giocatori le cose sono andate in modo leggermente differente. E in epoca di star power estremizzato, il peso di certe singolarità e soprattutto della NBPA nel farle valere, ha determinato una sorta di paradosso che potrebbe limitare la sopracitata “normalità” auspicata.

Nessun obbligo di protezione, e quindi assoluto libero arbitrio rispetto al cogliere o meno la “messa in sicurezza” dal contagio, o meglio, da una condizione severa della malattia. Per certi versi, una tegola a livello di apparenza per una lega che fu la prima a fermarsi nello sport statunitense, da sempre attenta ad apparir “progressista” e portatrice di buoni esempi. Il pericolo per la verità si respirava già alla fine della scorsa stagione, con giocatori di spicco che di fatto preferiscono tacere appelli pro vaccinazione, mentre i palazzi riprendono a riempirsi con la postseason che entra nel vivo.

Palazzi che, non dimentichiamolo, in alcune città come New York e San Francisco non permetteranno l’accesso ai non vaccinati – giocatori inclusi – in netto contrasto con quella libertà che la NBA si è trovata quasi costretta a concedere. E se LeBron James ha pubblicamente dichiarato di essersi vaccinato (ammettendo la sua non convinzione negli scorsi mesi), Andrew Wiggins è stato convinto più o meno con la forza (metaforica), visto che rischiava di saltare almeno le 41 gare casalinghe per i Warriors.

Questione che sembra ancora non essersi risolta per Kyrie Irving, che a differenza di altri “dissidenti” dichiarati come Bradley Beal e Michael Porter Jr., potrebbe mettere in pesante difficoltà i suoi Nets. Giocando il ruolo della “grande distrazione” per tutti, e rischiando pericolosi malumori negli spogliatoio. Anche se il rischio di non potersi neanche allenare, sembra essere scongiurato; ovviamente sempre in caso Irving decida di rimaner fermo sulla sua posizione, e quindi non vaccinarsi.

In tutto questo una lega che avrebbe volentieri dichiarato il 100% di immunizzati entro l’avvio della stagione, deve restar alla finestra in attesa di sviluppi, dovendo affrontare un grattacapo che avrebbe volentieri evitato nel settantacinquesimo anno di esistenza.

Sarà indubbiamente interessante capire quanto “il ritorno alla normalità” delle vaccinazioni reggerà, quanto i protocolli torneranno a render il calendario a singhiozzo, ed il tipo di impatto che la malattia ed i tracciamenti continui avranno su un campionato che riparte con il massimo delle capienze nelle arene. Sperando di non dover nuovamente correre ai ripari organizzativi, per qualsiasi tipo di imprevisto non calcolato.

Nel frattempo, un giocatore presumibilmente vaccinato come Jaylen Brown è risultato positivo al virus, ed immediatamente messo in quarantena. Certo, con vaccini e precauzioni il rischio diminuisce, ma non sparisce: una questione che abbiamo ampiamente imparato a calcolare, anche nella nostra quotidianità di comuni mortali.

Chi tra Portland e Phila pagherà di meno i tira e molla estivi di Lillard e Simmons?

Al momento in cui scriviamo, la telenovela tra Ben Simmons e Philadelphia sembra incredibilmente distante da un conclusione, per quanto in apparenza entrambe le parti rischiano di uscir ancor più danneggiate dalla stessa, di quanto già non siano. Quella tra Lillard e Portland, invece, appare tanto rientrata da non esser mai realmente accaduta. Forse spinta più mediaticamente, che nella realtà. Ma i dati di fatto ad oggi registrati non lasciano intravedere tranquillità nello stallo momentaneo, per entrambi i contesti.

Da una parte, una stella conclamata cosciente di rappresentare probabilmente il giocatore più importante nella storia della franchigia dell’Oregon; deluso per l’ennesima stagione buttata (e probabilmente per le scelte estive), ma incapace di non tributare rispetto alla “sua città”. Tanto da restare, per adesso.

Dall’altra invece, un uomo discusso e discutibile per attitudine, sentitosi tradito da un sistema che su di lui aveva più che scommesso, salvo scaricarlo in modo più o meno ufficiale dopo l’eliminazione per mano degli Atlanta Hawks nelle semifinali di Conference 2021.

La differenza di atteggiamento tra i due – che penalizza più o meno la franchigia di appartenenza – è sintomatica dei due caratteri, ma altrettanto figlia di quel che le rispettive organizzazioni hanno “seminato” in questi anni.

Damian Lillard non ha nessun interesse a forzare una trade che penalizzerebbe la Rip City, visto che le contropartite non sono apparse adeguate nei giorni in cui si millantavano possibili scambi. E tutto sommato accetta un altro anno da eroe solitario, con velleità di successo ridotte ad un lumicino: un film già visto. È vero che il suo valore di mercato non può svalutarsi in alcun modo, ma l’attenzione nel salvaguardare il futuro dei Blazers appare palese. E per quanto si è speso nel mantenere i suoi in posizioni più che dignitose nello scacchiere di Conference, non ce ne sarebbe neanche bisogno.

Simmons invece non ha voluto cedere a lusinghe tardive né a goffi tentativi di convincimento, non solo rispedendo al mittente i messaggi di “pace” dei Sixers, ma addirittura mettendo in chiaro di non voler più giocare per quel pubblico. A costo di perdere una stagione (ed i soldi dell’ingaggio, più le multe a suo carico). Ed il non presentarsi al training camp sembra solo il primo passo, laddove le contropartite proposte da chi prova a bussare alla porta di Morey, non appaiono adeguate.

Il tema sembra abbastanza delineato, quindi: tra le due squadre pagherà maggiormente quella che vedrà la propria stella più svalutata. E quindi Philadelphia.

E se Simmons sta facendo di tutto per obbligare i suoi ad accontentarsi “di poco”, le colpe per questa svalutazione non possono che ricadere anche sulla gestione del post sconfitta da parte della franchigia. Perché se l’elezione di Ben a capro espiatorio ne ha ulteriormente sottolineato quei limiti offensivi già conosciuti, la non protezione dal bombardamento mediatico che ha seguito quel momento, non può non destar stupore.

Sembra quasi che a Philadelphia si sia provato sollievo a costruire una panacea di tutti i mali, per cancellare quel process ormai naufragato a seguito di scelte discutibilissime, sicuri che dalla cessione dell’australiano sarebbero arrivati talenti di pari importanza all’interno della struttura resistente.

Occhio però che dall’altra parte, l’apparenza può ingannare. La storia ci ha insegnato che un stella NBA può decidere in ogni momento di obbligare i suoi a mosse in perdita, decidesse mai di cedere a sirene più concrete. Nella fattispecie, a Portland tutto sembra rientrato nei ranghi, ma gli episodi che recentemente han coinvolto Anthony Davis e i Pelicans (tanto per dirne uno), non dovrebbero far dormire sonni tranquilli a coach Billups.

Chi è favorita ad ovest? E Perché i Suns partono dietro ai Lakers?

L’arrivo di Russell Westbrook a Los Angeles ha chiaramente canalizzato attese e discussioni circoscritte alla Western Conference, verso la franchigia presieduta (in campo e fuori?) da LeBron James. L’eliminazione per mano dei Suns dei campioni in carica – durante il primo turno dei playoff 2021 – ha generato una rivoluzione quasi totale del roster, pur con possibilità di manovra limitate da una scarsa disponibilità salariale.

I ragazzi guidati da coach Monty Williams in panchina – e dal confermato Chris Paul sul parquet – sono comunque riusciti ad approdare alle Finals, facendosi recuperare un avvio da due vittorie a zero, ma gettando basi apparentemente solide sul proprio futuro prossimo. Eppure, nonostante qualche mossa di completamento del roster, ed il perfetto connubio tra esperienza e promettente gioventù in attesa di conferma, i Suns non appaiono favoriti di Conference in nessun power ranking.

E per quel che può contare, non avranno neanche l’onore di inaugurare la stagione durante la opening night, con i gialloviola attesi dai Warriors nella prima partita ad ovest.

Guardando comunque al parco contender, con Clippers e Nuggets che dipendono direttamente dagli eventuali rientri di Kawhi Leonard e Jamal Murray (e dal modo in cui torneranno), calcolando i Jazz come né più e né meno l’ottima squadra da regular season dello scorso anno – con limiti invariati – ridurre l’attenzione su Suns e Lakers appare quasi naturale. Ovviamente in attesa di sorprese.

E gli arrivi di Landry Shamet e JaVale McGee dovrebbero garantire qualche soluzione in più a roster, la tendenza nel soffrire eccessivamente la fisicità avversaria sembra mantenersi invariata, ma può essere occultata dall’aggressività difensiva e da una fluidità d’attacco invidiabile (oltre che da un po’ di cattiveria aggiunta per Ayton, che non guasterebbe). Anche se, la querelle che riguarda il prolungamento di contratto per il centro bahamènse (e le sue aspettative da max contract), potrebbe complicare le cose.

Teoricamente – e sulla carta – ci sono molti più interrogativi rispetto alle soluzioni che cercherà Frank Vogel, partendo da un roster da scremare in vista delle rotazioni ridotte dei playoff e quel fit tra Westbrook, James e Davis tutto da scoprire. Il nuovo parco guardie dei Lakers appare nettamente ampliato, anche osservandolo a prescindere da Russ, ma dovrà fronteggiare la partenza di due difensori del calibro di Caruso e Caldwell-Pope, centrali per le prestazioni degli ultimi due anni.
E nella metà campo difensiva, tanto dipenderà da quanto – e quando – Anthony Davis deciderà di guidare i suoi giocando centro. Capace, in potenza, di strutturare un contorno che dovrà comunque accettare di buon grado il concetto di “sacrificio”, come scontato appare quando ti accomodi in un sistema “LeBroncentrico”, seppur con AD chiave di volta.

Insomma, capire se i Lakers saranno credibili e se i Suns faranno la parte degli Heat dello scorso anno o meno, sembrano i temi principi della stagione in avvio ad ovest. E solo il nome della finalista 2022 sarà in grado di chiudere la questione, evidentemente.

Milwaukee può ripetersi?

Il tema primario per il campionato che sta per iniziare ad est, appare di contro il più classico riguardante la franchigia che ha appena alzato il Larry O’Brien Trophy. E molto superficialmente, la risposta appare tanto scontata quanto negativa. Quantomeno ad ascoltar quel che si dice in giro. La ragione principale è da ricercarsi nell’hype incredibile che circonda i Brooklyn Nets, che hanno accompagnato ai tanto suggestivi big three riconferme e nuove pedine di livello. Un superteam ancora una volta suggestivo per potenziale, e contemporaneamente inedito, calcolando quanto poco abbiamo visto Irving, Harden e Durant in campo insieme nella scorsa stagione.

Certo, le sopracitate grane vaccinali dell’ex giocatore di Cleveland e Boston potrebbero far scricchiolare da subito gli equilibri del gruppo, ma appare di comune convinzione il fatto che i Nets al completo non sono limitabili da nessuno ad est. Per buona pace di Giannis e dei suoi compagni titolati. Il precedente, poi, grida vendetta. E tradotto è ascrivibile al piedone di Kevin Durant che calpesta la linea dei tre punti nel buzzer beater che avrebbe potuto risolvere la gara 7 tra le due squadre, nella passata semifinale di Conference.

A metà della cavalcata di successo dei Bucks – con Brooklyn senza Irving, con Harden a meno di mezzo servizio ed un roster decisamente meno profondo dell’attuale – la storia poteva cambiare per appena qualche centimetro. E nonostante le straordinarie Finals di Antetokounmpo e la prova di forza mentale di tutti i Bucks nel vincere quattro gare consecutive con Phoenix, questa resta una sliding door difficile da non considerare.

Una delle ragioni per cui la franchigia del Wisconsin viene vista come agguerrita contender, ma con poche chance di replica. Oltretutto calcolando che il “KD stopper” PJ Tucker è finito a Miami, che con una offseason sontuosa in materia di movimenti e completamento, si presenta ai nastri di partenza carica di aspettative. Per certi versi più pronta – sulla carta – ad infastidire Brooklyn in un eventuale incrocio.

Certo, Milwaukee sola contro il mondo sarà un tema stimolante da seguire, che dovrà sottostare anche alle richieste mediatiche che riguarderanno direttamente Giannis. Anche queste, pegno da pagare per aver raggiunto la vetta della lega: potrà creare una legacy, confermandosi campione?

Come detto, la risposta appare retorica per i più, ma sarà comunque destinata a favorire pressioni che il greco dovrà gestire mantenendosi concentrato sul campo, consapevole di aver gli occhi del mondo incollati addosso, tutte le sere. E che in caso di fallimento – volente o nolente, giustificata o meno – la croce ricadrà su di lui.

Insomma, si tratta del prezzo da pagare per essersi iscritti nell’albo d’oro della NBA, e quindi è più che accettabile. Ma la stagione dei Bucks non si preannuncia semplice, anche a prescindere dal campo, e per questo sarà fondamentale seguirla con attenzione.

La nuova generazione per abbattere il futuro dei superteam?

La tendenza ai superteam come estremizzazione di quello star power che attanaglia la NBA, appare per molti un male invincibile. Destinato a resistere e modificare ulteriormente gli equilibri della lega, laddove i grandi giocatori si attraggono reciprocamente, virando verso grandi mercati, e facendosi pochi problemi degli obblighi contrattuali in essere. Forti del proprio status.

Non si tratta soltanto di un tema confermato dai nuovi big three dei Lakers, a sfidarsi potenzialmente con il terzetto Nets. Ma di un qualcosa che tornerà di stretta attualità in fase terminale della regular season, quando veterani possibilmente ex All-Star potrebbero supplicare un buyout per aggregarsi dove si spera di giocarsi qualcosa a Giugno. Roba già vista, seppur di discutibile efficacia.

Insomma, se da una parte un’inversione del trend appare improbabile, con conseguente preoccupazione del sistema NBA e di gran parte dei tifosi, dall’altra la stagione in avvio potrebbe dare primi segnali in positivo. Perché se osserviamo i numerosi talenti in uscita dal rookie contract rifirmati, e quelli che han scelto di legarsi ancora a lungo alla propria franchigia nel corso della scorsa stagione, la nuova generazione potrebbe cambiare da subito le carte in tavola. Sposando i progetti che li vedono protagonisti, e pazientando per costruzioni oculate attorno alla loro crescita.

Certo, perché questo accada occorre che i progetti sposati dalle stelle di nuove generazioni, appaiono funzionali e proseguano facendo passi in avanti. Il motivo per cui un Trae Young in rampa di lancio, dopo l’ottima postseason appena conclusa, ha scelto di legarsi ad Atlanta con una estensione quinquennale. Forse l’idea di puntare in alto già quest’anno (Gallinari dixit) è un po’ eccessiva, ma indubbiamente la centralità di Trae in un progetto efficace già nel presente, regala ottime prospettive future per i ragazzi attualmente allenati da coach McMillan.

Importante sarà quindi seguire i cammini stagionali dei prolunganti con le rispettive franchigie (Luka Dončić in testa), con uno sguardo verso quegli atleti “generazionali” giunti nella lega più recentemente, come Zion Williamson e Ja Morant. Che per non cedere a lusinghe più scintillanti, dovranno ancor più convincersi dei progetti che li circondano, elevando ulteriormente il loro gioco.

Per quanto riguarda la guardia di Memphis, il ritorno di Jaren Jackson Jr. dovrebbe aiutare nel trasformare i Grizzlies – che restano squadra dall’appeal piuttosto basso – in realtà piuttosto che sorpresa sottovalutata in avvio. Rispetto all’ex fenomeno di Duke, invece, non sono tanto le scelte operate dall’organizzazione in offseason, quanto l’infortunio al piede che dovrebbe risolvere per l’inizio delle ostilità a preoccupare un minimo. O quantomeno destar preoccupazione sulla sua tenuta, anche se lui appare determinato a raggiungere i primi playoff in carriera.

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Davide Torelli
Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.